“Un intero Paese è stato preso in giro per anni”, così il pm Giovanni Musarò si è espresso relativamente al procedimento penale in corso sulla morte di Stefano Cucchi. Un giudizio incisivo, con cui il magistrato ha messo in evidenza la lunga serie di depistaggi occorsi in merito allo svolgimento della vicenda processuale. La battaglia giudiziaria, volta ad accertare cause ed eventuali responsabilità sul decesso del giovane, ebbe inizio nel 2009 e fu chiusa nel gennaio 2017, per essere poi riaperta l’11 ottobre 2018, alla luce delle testimonianze chiave fornite agli inquirenti dai carabinieri Francesco Tedesco e Riccardo Casamassima. Proprio in tali deposizioni, venne sottolineato il lato “istituzionale” di questa via crucis, quello che tocca la catena di omissioni e insabbiamenti che nei primi anni era quasi riuscita.
Icastica e particolarmente rilevante fu, all’interno dell’istruttoria dibattimentale, una frase pronunciata dallo stesso Tedesco, grazie alla quale il processo prese una piega notevolmente diversa. È lunedì 8 aprile 2019, il carabiniere per la prima volta affermò che quel lontano ottobre del 2009 “era un periodo che si voleva fare più arresti per farsi notare”. In altre parole, stando alle sue dichiarazioni, sembrerebbe che il maresciallo Mandolini permettesse a Di Berardo e D’Alessandro di circolare, al di fuori dell’orario di servizio, in abiti civili e con i propri mezzi al fine di compiere ulteriori arresti, in collegamento – e in accordo – con la sala operativa.
Già sulla base di tali affermazioni, è lampante come l’intenzione del maresciallo fosse quella di forzare la mano e di dare adito ad ogni sospetto di reato per fare una buona impressione con i propri superiori dell’Arma. In questo contesto si inquadra l’omicidio di Stefano: un atto di forza, conseguenza della scellerata violenza, usata – paradossalmente – da coloro che avrebbero dovuto assicurare la giustizia e garantire l’ordine.
E i continui depistaggi emersi nel processo, che ora sembra aver raggiunto un epilogo, hanno continuato a uccidere Cucchi nelle forme delle sabbie mobili procedurali, e con lui il rapporto di fiducia fra lo Stato e i cittadini. Non è un processo all’Arma, certamente, ma un processo alla salute dell’Arma e al suo futuro nel rapporto con la cittadinanza.
Stefano Cucchi è stato vittima di violenza intenzionale mentre, dopo essere stato arrestato, si trovava nelle mani dello Stato. Lo riconoscono i giudici nelle motivazioni della sentenza d’appello e lo afferma esplicitamente la procura di Roma quando parla di “violentissimo pestaggio” da parte dei carabinieri. L’aggressione è stata, altresì, mossa da uno o più scopi specifici, ovvero punizione per un comportamento che il giovane potrebbe aver tenuto dopo l’arresto, incutere timore, ottenere informazioni in merito agli stupefacenti di cui era stato trovato in possesso al momento della perquisizione personale (provenienza, fornitori, nascondigli), discriminazione nei confronti di una persona stigmatizzata come tossicodipendente e spacciatore.
Una forma di tortura vera e propria, che rappresenta, più di ogni altro atto, l’ambiguità della condizione umana. Quando poi l’oscenità della tortura si insinua nello Stato di diritto e vi alberga senza troppo clamore, nella passiva indifferenza dei più, allora le ombre di questa ambiguità si proiettano al di là di un confine di sicurezza oltre il quale, per l’astante che vuole vedere e sentire, vi sono inevitabilmente angoscia e inquietudine. È questa, secondo noi, una delle ragioni per cui la tragica vicenda di Stefano Cucchi ha suscitato e continua a suscitare tanta attenzione nell’opinione pubblica del nostro paese: la violenza a cui viene sottoposto un uomo mentre, privato della libertà, si trova nelle mani dello Stato; l’impunità nei confronti dei colpevoli; la possibilità concreta che un tale evento – ben lungi dall’essere un fatto eccezionale – possa ripetersi con una certa frequenza in un silenzio connivente e, soprattutto, che possa potenzialmente coinvolgere, in modo diretto o indiretto, qualsiasi cittadino.
Nonostante la durata assolutamente discutibile del percorso giudiziario che ha condotto alla condanna dei due carabinieri, è il principio dell’indipendenza su cui si poggia la Magistratura che ha rappresentato l’anello determinante per la vittoria della legalità e dei diritti umani. Se gli articoli 101, 104, 107, 108 e 111 della nostra Costituzione fossero marginali o, peggio, non fossero stati inseriti nel testo della legge fondamentale, l’esito del processo probabilmente non sarebbe stato il medesimo.
Ciò che è accaduto a Stefano Cucchi è inaccettabile in un una società civilizzata come la nostra, in un Paese dove la pena di morte è stata rimossa definitivamente dalla Costituzione con la legge costituzionale del 2 ottobre 2007, n. 1, dopo essere stata uno dei simboli della crudeltà del periodo fascista ed il suo codice Rocco. Il testo dell’art. 27, al terzo comma, sancisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La sua abolizione definitiva è espressione del carattere democratico del nostro ordinamento che riconosce la libertà in ogni sua forma come diritto insormontabile, principio calpestato dalle azioni commesse dai due carabinieri nei confronti di Stefano Cucchi quella tragica notte del 2009.
È corretto affermare, citando la filosofia hegeliana, che solo nello Stato si è e si può essere davvero liberi? La questione, a parer nostro, rimane aperta. Senza dubbio, condividiamo la posizione della psichiatra statunitense Judith Lewis Herman, della quale riportiamo una citazione, nella speranza che possa servire da spunto di riflessione: «È moralmente impossibile rimanere neutrali di fronte a questo conflitto, e gli astanti sono obbligati a schierarsi. La posizione del carnefice è estremamente invitante da sostenere, dato che tutto quel che chiede agli astanti è di non fare nulla, facendo leva sul desiderio universale di non vedere, non sentire, e non parlare del male. La vittima al contrario, chiede all’astante di condividere il suo fardello o la sua sofferenza: pretende azione, impegno, memoria.»
Nonostante il caso Cucchi sia ormai giuridicamente chiuso e sia stata fatta giustizia, rimane ancora una ferita aperta, in primis per la famiglia di Stefano, ma anche per le nostre coscienze e soprattutto per la credibilità e integrità morale dello Stato. E sicuramente, sarà necessario molto tempo per rimarginarla.
A cura di Elena Franceschini e Nicola Scorpioni

Fonti (citate in ordine alfabetico):
- https://www.repubblica.it/commenti/2022/04/08/news/uguali_davanti_alla_legge_la_lezione_di_stefano_cucchi-344588195/
- https://www.iistelese.it/wp-content/uploads/2021/04/CASO-CUCCHI.pdf
- https://left.it/2018/10/18/il-caso-cucchi-spiegato-ai-miei-studenti/
- https://abitarearoma.it/il-caso-cucchi-la-moderna-antigone-il-prof-barbero/