Il caso di Guantanamo

Il caso di Guantanamo

Il 10 dicembre del 1948 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ratificò a Parigi la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, e questo fu un traguardo storico eccezionale per tutta l’umanità. Ad oggi, ben 193 paesi su un totale di 206, hanno riconosciuto e approvato con una firma tali diritti.

Un caso, però, considerato da molti opinionisti come un passo indietro nel loro riconoscimento, che ha fatto voce ed è stato e continua essere ancora oggi fonte di forti polemiche, è quello di Guantanamo: una baia di Cuba, ma soprattutto un luogo dove sorgono campi di prigionia, dove durante lo scontro tra tra gli USA e le forze di Al-Qaeda (ossia i responsabili della tragedia delle torri gemelle), sono stati incarcerati solo tra il 2002 e il 2004 dalle forze americane più di 800 sospettati.

 L’apertura della prigione di Guantanamo si colloca quindi successivamente all’attentato al World Trade center di New York dell’11 Settembre 2001, a seguito del quale gli Stati Uniti, sotto la guida dell’allora presidente George Bush, avviarono una campagna di rappresaglie contro individui che l’intelligence americana riteneva essere terroristi. Furono perciò arrestati, prevalentemente in Afghanistan e Pakistan, centinaia di individui tramite un processo chiamato “Extraordinary rendition”( letteralmente: consegna straordinaria), una manovra straordinaria, detta “extralegale”, che prevede la deportazione clandestina dal paese di origine di elementi ritenuti “ostili”. La struttura detentiva si colloca all’interno della basa navale di Guantanamo, sull’isola di Cuba: la scelta del luogo non è stata casuale, la sua collocazione geografica infatti la rendeva sotto il controllo né di Cuba né della Corte federale americana. La struttura detentiva fu inaugurata l’11 gennaio 2002, e originariamente constava di 3 campi: Camp Delta, Camp Iguana e Camp-Xray (quest’ultimo chiuso il 29 aprile 2002). 

Lo scopo del carcere inizialmente era proprio il catturare i possibili sospettati dell’evento terroristico delle Torri Gemelle del 2001. Da allora, però, lo stato americano ha continuato ad incarcerare una grande quantità di uomini senza che questi avessero atteso un vero processo penale o che fossero fornite loro le motivazioni della loro prigionia, in antitesi con quanto sancisce il principio dell’Habeas Corpus. Proprio per questo motivo si sono levate polemiche riguardo alle condizioni di reclusione degli incarcerati. Lo stesso governo degli USA li avrebbe classificati non come prigionieri di guerra (cosa che avrebbe potuto garantire loro processi e garanzie ordinarie), bensì come dei “nemici combattenti”, classificazione che quindi permetteva alle forze americane di non doversi necessariamente attenersi e garantire i diritti sanciti dalla Convenzione di Ginevra, a tutela dei prigionieri di guerra e del diritto internazionale umanitario. 

Documento originale dell’approvazione del Dipartimento della difesa americana delle tecniche proposte dalla Joint Task Force 170 per ottenere informazioni dai prigionieri, 27 Novembre 2002.

Vennero messe a punto dei nuovi sistemi di tortura da parte dei due psicologi James Mitchell e Bruce Jessen che consistevano nel “waterboarding”, una forma di “annegamento controllato” in cui ai detenuti viene versata dell’acqua sul volto (rendendo quasi impossibile loro la respirazione), o nella privazione del sonno insieme a molte altre pratiche. Mitchell e Jessen crearono nel 2005 una società privata che, al termine del rapporto con la CIA, fruttò un profitto di 81 milioni di dollari. 

Il caso più impattante di tali vicende fu quello di Ahmed Rabbani, un ex tassista di Karachi che per 18 anni è stato “prigioniero per sempre” ed è stato soggetto per 540 giorni a queste torture senza esser stato mai accusato di un crimine. È stato rapito, tolto dalla sua famiglia e venduto agli Stati Uniti da parte delle autorità pakistane. Queste ultime credevano di aver a che fare con un altro uomo di nome Hassan Ghul, ma quando il vero Ghul venne catturato, lo stato americano non volle comunque rilasciare Rabbani

La storia della prigione di Guantanamo ha scatenato, negli Usa e non solo, discussioni intorno alla necessità di chiudere la struttura. Ad oggi la prigione, che dalla sua apertura ha ospitato più di 800 detenuti, reclude ancora quaranta persone, di cui la maggior parte ancora in attesa di un processo da anni. 

Nel 2009 l’ex presidente Obama firmò l’ordine di chiusura del carcere, ma ad oggi la struttura è ancora aperta, anche a causa dell’opposizione del Senato. Si mosse a riguardo l’Amnesty International, un’organizzazione volta a salvaguardare i diritti dell’uomo, che continua anche adesso a lottare per la chiusura di Guantanamo. Protestò in particolare contro il governo Trump, in quanto quest’ultimo, a differenza del precedente, riteneva che il mantenimento del campo fosse necessario alla sicurezza degli Stati Uniti, e nel 2018 ha annunciato l’abbandono del programma di chiusura. Le sue contestazioni, ad ogni modo, non vennero ascoltate dallo Stato.

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