Caso Cucchi: dall’arresto alla morte

Caso Cucchi: dall’arresto alla morte

Tredici anni fa avvenne quello che è passato alla storia come uno degli abusi di potere più significativi e discussi in Italia, la successione di eventi che portarono alla morte di un giovane ragazzo romano per mano delle autorità.

Stefano Cucchi è morto a Roma il 22 ottobre 2009, mentre era in custodia cautelare accusato di spaccio e di detenzione. Il 4 aprile 2022 la Corte di Cassazione ha condannato i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro a dodici anni di reclusione per omicidio preterintenzionale, per poi estendere la pena a ventidue anni con l’ulteriore accusa di depistaggio.


Il 15 ottobre 2009 intorno alle ore 23:30, presso Via Lemonia, in zona Appio Claudio a Roma, Stefano Cucchi, geometra romano di 31 anni (nato il 1º ottobre 1978), fu fermato dai carabinieri Francesco Tedesco, Gabriele Aristodemo, Raffaele D’Alessandro, Alessio Di Bernardo e Gaetano Bazzicalupo, tutti in servizio presso la Stazione Roma Appia, dopo essere stato visto cedere a Emanuele Mancini alcune confezioni trasparenti in cambio di una banconota. Bloccato e perquisito, il giovane fu trovato in possesso di 20 grammi di hashish, uno spinello e due pasticche (dalle successive analisi emerse che una pasticca conteneva materiale inerte, l’altra era un farmaco per trattare l’epilessia di cui soffriva). Una volta portato in caserma, fu disposta la perquisizione domiciliare presso l’abitazione dei suoi genitori, che ebbe esito negativo. In quel frangente, Stefano incontrò i suoi genitori, con i quali viveva. La madre di Stefano non sapeva che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrebbe visto suo figlio ancora in vita.

Finora Stefano Cucchi si trovava in buona salute e non ha lamentato dolori muscolari. Alle 2:15, Stefano, accompagnato da Tedesco, Di Bernardo e De Alessandro, si è recato al posto di comando dei carabinieri di Casilina, Roma, per un rilevamento fotosegnaletico e impronte digitali. In questa sede D’Alessandro e Di Bernardo hanno picchiato Stefano, come ha assistito Tedesco nel 2018, in una lite nata perché Cucchi non voleva accettare i rilievi della polizia scientifica. Da lì, dopo essere stato riportato alla stazione Appia di Roma, è stato trasferito alla caserma Tor Sapienza, dove ha trascorso la notte in una delle celle di sicurezza. Il ragazzo ha riferito di sentirsi male alla guardia di turno intorno alle 4:30 del 16 ottobre ed è stato chiamato il 118, ma Stefano si è rifiutato di farsi controllare. Nella mattinata, su disposizione della Procura della Repubblica di Roma, Stefano fu condotto presso il Tribunale di Piazzale Clodio, per la convalida dell’arresto ed il contestuale giudizio direttissimo. Durante l’udienza, Stefano ha risposto alle domande del giudice, dichiarandosi innocente in ordine all’addebito lui contestato proferendo le seguenti parole: ” io mi dichiaro innocente per quanto riguarda lo spaccio, mi dichiaro invece colpevole per quanto riguarda la detenzione, per uso personale”. Riferiva di essere tossicodipendente e di essere stato seguito in passato dal SERT di Torpignattara, da Villa Maraini e dalla comunità CEIS. Sosteneva di essere affetto da epilessia, celiachia ed anemia. Terminato l’interrogatorio di garanzia, il Pubblico Ministero ha richiesto la convalida dell’arresto e l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, ritenendo l’applicazione di una misura più lieve non efficace a fronteggiare il pericolo di reiterazione del reato di spaccio, che scaturiva da precedenti che lo gravavano. Il difensore, invece, si è opposto alla convalida dell’arresto ed ha richiesto, nell’ipotesi in cui l’arresto venisse convalidato, l’applicazione della misura dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. Già durante il processo, Cucchi aveva difficoltà a camminare e a parlare e mostrava evidenti ematomi agli occhi; il ragazzo parlò con suo padre pochi attimi prima dell’udienza, ma non riferì di essere stato picchiato. Alla fine dell’udienza, il giudice convalidò l’arresto di Stefano Cucchi e dispose l’applicazione nei suoi confronti della custodia cautelare presso il carcere di Regina Coeli. Dato che il difensore ha richiesto dei termini per preparare la difesa, il processo veniva rinviato alla data del successivo 13 novembre. Dopo l’udienza, le condizioni di Cucchi peggiorarono ulteriormente. Il 16 ottobre, alle ore 23, fu condotto al pronto soccorso dell’ospedale Fatebenefratelli, presso il quale furono messe a referto lesioni alle gambe, al volto (con frattura della mandibola), all’addome e al torace (con frattura della terza vertebra lombare e del coccige). Fu quindi consigliato il ricovero, che però il paziente rifiutò, venendo quindi ricondotto in carcere.

Nei giorni successivi, per l’aggravarsi delle condizioni, Stefano Cucchi fu trasferito al reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini, dove morì all’alba del 22 ottobre; al momento del decesso pesava solamente 37 chilogrammi. Dopo la prima udienza, i familiari cercarono a più riprese di vedere, o perlomeno conoscere, le sue condizioni fisiche, ma senza successo: essi ebbero nuovamente notizie del proprio congiunto solo quando un ufficiale giudiziario si recò presso la loro abitazione per notificare l’autorizzazione del magistrato a eseguire un’autopsia. 

Da qui partono le prime indagini. Il personale carcerario negò le accuse per quanto riguarda le violenze sul detenuto e sostenendo che la morte potesse essere associata all’abuso di droga, anoressia, tossicodipendenza. Per contrastare le false affermazioni intorno alla morte di Stefano, i suoi familiari pubblicarono in rete le foto scattate all’obitorio, nelle quali si vedevano sul corpo i segni delle contusioni e l’evidente stato di denutrizione. Per Ilaria, la sorella, e i genitori non ci sono dubbi: Stefano è stato picchiato. Il 13 dicembre 2012 si apre il processo di primo grado, nel quale dieci medici e infermieri dell’ospedale Pertini e tre carabinieri, ai quali vengono contestati i reati di favoreggiamento, abbandono di incapace, abuso d’ufficio e falso ideologico. Sempre il 13 dicembre 2012 si apre il processo di primo grado. I periti incaricati dalla corte stabiliscono che a causare la morte del giovane furono sì le mancate cure mediche e la carenza di cibo e liquidi ma che per quanto riguarda le lesioni riscontrate, queste potrebbero essere state causate da un pestaggio oppure da una caduta accidentale. I periti sottolineano che non vi sono elementi che facciano propendere per l’una piuttosto che per l’altra dinamica. Il 5 giugno 2013 la Corte d’assise di Roma condanna in primo grado cinque medici dell’ospedale a un anno e quattro mesi, il primario a due anni di reclusione per omicidio colposo, un altro medico a otto mesi per falso ideologico, mentre assolve sei persone: tre infermieri e i tre agenti della polizia penitenziaria, i quali – secondo i giudici – non hanno contribuito alla morte di Cucchi. Le pene vengono sospese per tutti e la lettura della sentenza provoca lo sdegno da parte dei familiari di Stefano. Il 31 ottobre 2014, la Corte d’appello assolve tutti gli imputati, medici compresi. La sorella di Stefano, Ilaria, attiva fin dall’inizio della vicenda, non si ferma e annuncia il ricorso in Cassazione nonostante la querela ricevuta dal sindacato della polizia, secondo cui quelle di Ilaria sono “illazioni” contro le forze dell’ordine. Il 15 dicembre 2015, la Cassazione dispone il parziale annullamento della sentenza di appello, ordinando un nuovo processo per cinque dei sei medici (ed escludendo ancora una volta la responsabilità dei poliziotti): per la corte, gli stati patologici di Cucchi avrebbero richiesto maggiore attenzione e approfondimento da parte dei sanitari. Si arriva così all’appello-bis, celebrato il 18 luglio 2016, che però assolve nuovamente i cinque medici con la formula “il fatto non sussiste”. Ma non finisce qui: il 19 aprile 2017, la Cassazione dispone l’annullamento anche di quest’ultima sentenza e il 23 marzo 2018 si apre l’ennesimo processo d’appello. La parola fine del primo filone d’indagine, che si è concentrato sulla responsabilità del personale medico, arriva il 14 novembre 2019 con l’assoluzione di tutti gli imputati. Intanto, il 14 novembre 2019, la corte di assise di Roma riconosce Di Bernardo e D’Alessandro colpevoli di omicidio preterintenzionale, condannandoli a 13 anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Condanna che viene confermata in via definitiva dalla corte suprema di Cassazione il 4 aprile 2022 riducendo la pena a 12 anni.  Il 7 aprile 2022, anche il processo per depistaggio arriva a una conclusione, con otto carabinieri (tra cui generale, colonnello, comandante, quindi un’intera catena di comando) condannati a scontare complessivamente 22 anni di carcere.

A cura di Tommaso Sisani, Nicolò Sirci e Michele Agostinelli


Il caso ha attirato l’interesse dell’opinione pubblica e ha ispirato documentari e film: in particolare è consigliata la visione del film ‘’Sulla mia pelle’’, diretto da Alessio Cremonini e interpretato da Alessandro Borghi, disponibile sulla piattaforma di streaming Netflix.

I dati ISTAT del 2017 ci consegnano un quadro che non si presta ad interpretazioni alternative: su circa 6.500 procedimenti aperti, le sentenze irrevocabili di condanna per abuso d’ufficio sono state soltanto 57. La tendenza è confermata dai dati del Ministero della Giustizia, secondo cui dei 7.133 procedimenti definiti nel 2018 dagli uffici GIP/GUP, 6.142 sono stati archiviati (373 per prescrizione). Negli Stati Uniti la situazione è ben più critica, infatti in sette anni la polizia americana ha ucciso 7.663 persone, ovvero in media 1.100 l’anno e circa 0,34 ogni 100mila abitanti. 

Casi simili a quello di Stefano Cucchi sono quello di Giuseppe Uva, Aldo Bianzino e Federico Aldovandri.

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